La seconda parte dell’intervista ad Alfredo Paramico in Casa Bonanno

Continuiamo la nostra intervista ad Alfredo Paramico (qui la prima parte) che avevamo interrotto mentre stavamo argomentando in merito all’orologeria indipendente.

Alfredo Paramico con Giovanni Bonanno.
Alfredo Paramico con Giovanni Bonanno.

Abbiamo detto che l’orologeria tradizionale e vintage sono due “settori” che viaggiano in parallelo senza competere l’uno con l’altro. È però innegabile che alcuni produttori moderni stiano, per così dire, “tirando la giacchetta” agli indipendenti. Vediamo sempre più collaborazioni con loro, come pure alcuni modelli di marche “storiche” si presentano oggi con grafiche e colori non certo convenzionali. Tutto questo, spesso, con l’avallo e il sostegno di alcune Case d’asta.

«Affronto per prima il discorso dell’interesse “pressante” delle case d’asta nei confronti di alcuni indipendenti: a mio avviso sono logiche di mercato che non dovrebbero esistere e metterei questi comportamenti alla stessa stregua della speculazione. Per quanto riguarda il discorso che i brand storici, da qualche anno a questa parte, stiano provando ad “imitare”, almeno stilisticamente, la creatività propria degli orologiai indipendenti, credo che in teoria qualcosa lo abbiamo visto, ma sempre dal punto di vista puramente estetico. La realtà è che non si può assolutamente dire che i brand più tradizionali negli ultimi 40 anni abbiano fatto innovazione. I materiali delle casse sono sempre gli stessi, nonostante la tecnologia ci permetta di fare cose veramente fuori dal comune. I layout dei quadranti sono sempre gli stessi, lo stesso vale per la forma delle casse…»

Non si salva nessuno? 

«Uno dei pochi che ha realmente innovato è Richard Mille, con la scelta dei materiali, delle meccaniche e con quella della cassa.»

Non è facile invece per i brand storici. 

«Assolutamente no, faccio un esempio. Patek Philippe si porta dietro storia, tradizione, valori di qualità e di perfezione. Innovare sarebbe in una certa qual maniera “rinnegare” tutto questo: una scelta “molto” difficile. Non vorrei essere nei panni di Stern, perché tra l’innovare e il rinnegare il confine è molto labile. Diventa pericoloso. Ma soprattutto i portatori di storia e tradizione, come proprio Patek Philippe, ma anche noi collezionisti di vecchio stampo, se non cerchiamo di capire il futuro, se non cerchiamo di pensare come ragionano le nuove generazioni, rischiamo di rimanere aggrappati al nostro territorio… e non va bene.»

Un esempio? 

«Qualche anno fa ho avuto la fortuna di assistere a un simposio con Jean-Claude Biver, genio assoluto dell’orologeria. Lui disse “Tutte le notti cerco di pensare a cosa possiamo offrire alle nuove generazioni. Le idee migliori mi venivano quando andava in Giappone con mio figlio Pierre. Mi piaceva vedere in quali negozi entrava, cosa sceglieva, cosa osservava, cosa commentava con i suoi amici. La realtà è che soltanto se noi riusciamo a comprendere le nuove generazioni, possiamo trasferire nel presente e nel futuro l’enorme valore culturale che ci viene dal passato”. In quell’epoca credo che avesse un ruolo apicale in TAG Heuer ed era e Presidente della Divisione Orologi di LVMH, un marchio giovane e giovanile. Non a caso contattò – e siamo circa nel 2017- due giovanissimi per fare comunicazione: il primo era un cantante, cantautore, rapper e produttore discografico colombiano, J Balvin. Le parole di Biver risultano ancora oggi emblematiche “Dobbiamo iniziare dai Millennials”. Anche se non possono comprare adesso, prima o poi compreranno. Se non parli con loro adesso, come potranno sognarti più tardi?”» 

Siamo curiosi: il secondo? 

«Un ragazzo che sui kart andava più veloce di tutti, ma era soprattutto famoso per le immancabili liti e scazzottate a fine corsa. Si chiamava Max Emilian Verstappen ed è oggi, con tre mondiali vinti di fila, uno dei più grandi piloti della Formula 1.»

Non pensi che i giovani debbano scegliersela da soli la strada? 

«Sì, ma hanno bisogno di una guida.»

Il web può essere la soluzione migliore per raggiungerli? 

«Ho la fortuna di utilizzare senza problemi i social media e negli ultimi anni mi è capitato di entrare in contatto più di una volta con dei ragazzi di 25/35 anni, soprattutto nel sud-est asiatico: Singapore, Malesia, Taiwan, Viet Nam. Nella quasi totalità delle volte il nostro “rapporto” inizia perché ricevo da parte loro un messaggio su Instagram.»

Cosa ti dicono? 

«Inizia sempre con un “Signor Paramico” e qui già un po’ mi girano perché mi sento vecchio, cosa che non sono. “Grazie! Lei per noi è stato una fonte di ispirazione, per quello che ha collezionato, che ha comprato, per il suo stile nel fare le cose”. Io cerco di far capire a questi ragazzi, che tutto quello che posso fare per loro è “accendere un faro” su di un mondo che conosco molto bene, quello della bella orologeria tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Si tratta però di un qualcosa di circoscritto. La vera fonte di ispirazione sono loro per me, perché solo loro mi possono proiettare in un mondo illimitato che ha un solo nome: futuro.»

Le generazioni si devono parlare. 

«Che è quello che faccio continuamente con questi ragazzi e lo scambio di idee è qualcosa di realmente bello e potente.»

C’è anche qualche europeo? 

«Sì, qualche americano e qualche europeo, anche due o tre italiani. Tutte persone davvero molto interessanti.»

Tu hai la fortuna di partire da un livello realmente molto alto. 

«Lo posso fare perché sono entrato in questo mondo davvero tanti anni fa, con delle regole e dei numeri diversi da quelli odierni. Se mi guardo indietro, scopro che oggi non potrei neanche lontanamente permettermi gli acquisti che facevo qualche decennio addietro. I valori sono completamente diversi. Oggi si parla di fattori esponenziali.»

Il tuo passato è la tua forza. 

«Ho avuto la fortuna di crescere in un contesto dove gli orologi c’erano, si potevano toccare, c’era soprattutto un grandissimo affiatamento tra tutte le persone che se ne occupavano.»

L'inconfondibile tourbillon di Daniel Roth
L'inconfondibile tourbillon di Daniel Roth

Cosa ti trasmette un orologio? 

«Un insieme di sensazioni: la bellezza, la rarità, le sue condizioni. In pratica mi parla e mi racconta tutto di sé. Però mi piace tanto pensare i criteri che le nuove generazioni seguono per la scelta e l’acquisto degli orologi: loro si basano tanto sulle storie degli orologiai rinati negli anni ’90 dopo il crollo nel ventennio precedente dovuto al quarzo. A me tutto questo piace tantissimo.»

Tu mi parli di storytelling e intanto il mondo, almeno fino a pochissimo tempo addietro, nelle lancette sembra aver cercato più che altro un motivo per speculare. 

«In qualunque investimento c’è inevitabilmente un occhio che guarda anche all’aspetto finanziario, ed è anche giusto che sia così. Quando cominciavo a comprare i primi pezzi importanti, il fatto di dover “pagare un premio” perché un determinato orologio aveva delle caratteristiche al di fuori della norma, era una cosa gestibile, perché i valori erano compatibili con la vita del tempo. Oggi chi compra dei pezzi al di sopra della media, pagando magari cifre tra i 3 e i 5 milioni di dollari, sa perfettamente cosa compra ma è giusto che stia attento alla salvaguardia del suo patrimonio.» 

La speculazione però c’è stata.

 «Sì, è inutile negarlo. Ma è stata provocata da dei fattori esogeni e non endogeni all’orologeria. Il Covid ha stravolto tutto, mettendo sui mercati un’iniezione di liquidità che non ha avuto eguali nella storia. Mi da così fastidio, oggi, sentirmi dire “il mercato degli orologi è crollato”. Non è affatto vero. La realtà è che alcuni modelli che avevano raggiunto quotazioni folli durante la pandemia, oggi vedono le loro quotazioni dimezzate. Ma in generale tutti prezzi odierni sono sempre più alti rispetto a quelli pre-pandemici.»

Una considerazione corretta, perché il mercato dell’orologeria ha comunque aumentato il suo valore. 

«In statistica si dice che gli eventi inaspettati, guerre, pandemie, calamità naturali, non vanno considerati per gli studi sulle medie, ma vanno nelle code della curva di probabilità. Estrapolando le eccezioni, il picco dei prezzi durante la pandemia, possiamo osservare che gli orologi hanno avuto una crescita costante nel tempo.»

Rolex cronografo rattrapante ref. 4113

La storia più rocambolesca che ricordi nell’acquisto di un orologio? (a chiederlo è Giovanni Bonanno) 

«Guarda Giovanni, ne posso raccontare due. La prima è legata a dei sentimenti che raramente ho provato – e non me ne vergogno a dirlo – anche nei normali rapporti umani. È stato quando ho acquistato il 1518 in acciaio. Una trattativa andata avanti per mesi, soggetta al risultato di un’asta minore che si era svolta solamente il giorno prima di concludere l’operazione. Ricordo che era la sera inoltrata di una bella giornata di maggio, mi trovavo nel lungolago a Ginevra davanti a quello che oggi è il Four Seasons Hotel des Bergues. Ancora ho impresso il momento di quando ricevetti la fatidica notizia e quello che provai fu qualcosa di realmente forte.»

Quell’orologio ha poi fatto 11 milioni di franchi svizzeri all’asta da Phillips. 

«Esatto. Proprio lui.»

La seconda domanda riguarda il pezzo che non sei mai riuscito ad acquistare: c’è un orologio che hai tanto desiderato ma non sei mai riuscito a possedere? 

«Non sono mai riuscito a comprare il “limoncino”, o meglio l’ho perso per tre volte di fila sempre per 5.000 euro… poi uno l’ho preso, ma dopo. Per il resto non c’è mai stato un orologio che abbia desiderato e che non sono riuscito ad acquistare.»

L’acquisto di cui sei più orgoglioso? 

«Sicuramente il Patek Philippe ref. 2497 in platino. Un orologio straordinario, che non dovrebbe essere chiuso in una collezione privata, ma meriterebbe senza dubbio la teca di un museo. Tra l’altro, anche in quel caso, arrivai all’acquisto dopo una storia rocambolesca.» 

Se puoi, raccontacela. 

«Ci vorrebbe Aurel Bacs per avere il racconto completo. Quello che mi ricordo è che all’epoca non c’erano i social così efficaci, ed Aurel ricevette una telefonata da una persona che si trovava addirittura in un altro continente, che gli diceva di possedere un orologio molto bello. In quell’epoca però, ci divertivamo tra amici a chiamarlo per scherzo, facendo le voci strane e proponendogli i pezzi più strani e costosi. Quindi lui pensò che si trattasse dell’ennesimo scherzo e lo trattò come tale. Ci volle del tempo per convincerlo, ma soprattutto l’arrivo della foto che ritraeva questo pezzo bellissimo, con la cassa praticamente nuova, con gli indici Breguet in smalto bellissimi. Nella garanzia, all’ultima pagina, c’era il timbro del concessionario e la data di vendita, che corrispondeva a quella presente sull’estratto di archivio richiesto successivamente.»

Nomini sempre questo 2497, ti ha davvero colpito. 

«Sì, è qualcosa che mi è rimasto dentro. Per quanto l’ho amato e rispettato, non sono “mai” riuscito ad indossarlo. Era in cassetta di sicurezza, l’ho tenuto in mano tante volte, studiato in ogni suo minimo particolare, ma non sono mai riuscito ad indossarlo al polso. Mi piaceva vederlo, sapere che esisteva: una forma di rispetto forse eccessiva.»

Nautilus o Royal Oak. 

«Royal Oak tutta la vita, chi mi conosce sa che non amo il Nautilus, anche se ho posseduto il più bello di tutti, ma continua a non piacermi.»

Daytona o Speedmaster? 

«Daytona.»

Cosa ne pensi si Swatch che riedita prima il MoonSwatch e poi il sub di Blancpain? 

«Sono delle iniziative divertenti: ho il primo, acquisterò il secondo. Penso che siano delle operazioni commerciali che hanno il merito di avvicinare i più giovani al mondo e alla storia dell’orologeria. Non ci vedo nulla di male, anzi sono del tutto favorevole. Un bene per tutti quanti.»

Rolex che ha acquisito Bucherer? 

«Penso sia anche giusto. È un’ulteriore verticalizzazione dell’industria orologiera, che va guardata in maniera positiva. Inoltre il mercato del secondo polso è sempre più importante, e Rolex non ha nessuna intenzione di perdere questa fetta di mercato.»

Chi comprerà Patek Philippe? 

«Non lo so e non lo posso sapere. Si parla tanto di LVMH, ma difficilmente la loro strategia commerciale e produttiva sarebbe compatibile con una realtà come Patek Philippe.»

LVMH si sta muovendo in forze nel mondo dell’Alta Orologeria. 

«Hanno fatto un grosso investimento con La Fabrique du Temps, prendendo due mega orologiai: Enrico Barbasini e Michel Navas, che hanno lavorato in maniera stupenda sia con Daniel Roth che con Gerald Genta. I loro segnatempo faranno una concorrenza agguerrita alla fascia altissima dell’orologeria, come potrebbero integrarsi con la Casa ginevrina? Venendo dal mondo della finanza sono pronto ad accettare tutto, ma sarebbe veramente difficile un’acquisizione di questo tipo. Non la vedo come un’operazione sul tavolo.»

Cosa guardi quando acquisti un orologio? 

«La bellezza! Deve essere bello. Ricordo che Auro Montanari diceva sempre “l’importante per gli orologi è che siano belli,” è il suo mantra.»

L’ha detto anche a noi nella sua intervista

«Auro è un esteta in ogni cosa che fa, dagli orologi, alle auto, all’abbigliamento… Non riuscirò mai ad imitarlo ma sono d’accordo con lui: l’orologio ti deve dare delle sensazioni positive. A questo proposito, proprio dopo aver letto la tua intervista, vorrei dissentire in merito ad una sua affermazione

Ti ascoltiamo! 

«Auro ha detto che secondo lui gli indipendenti non sono ancora riusciti ad offrire un canone estetico all’altezza della qualità meccanica dei loro orologi. Su questo avrei qualche dubbio. Auro è nato e cresciuto studiando gli orologi con la lente d’ingrandimento, la sua cultura è così radicata sui canoni estetici degli anni ’40 e ’50, che non deve essere facile per lui apprezzare appieno il canone estetico di un indipendente. Lo dico con affetto e non come critica. Proprio le persone come Auro, che hanno un bagaglio culturale da trasmettere, sono quelle che dovrebbero fare uno sforzo in più per cercare di capire “perché quell’orologiaio ha voluto quel canone estetico sulla sua creazione, come ci è arrivato, cosa voleva raccontare.”»

I tempi cambiano. 

«I tempi cambiano e con loro cambiano anche i canoni estetici. Se io oggi vedessi un indipendente fare un orologio con un movimento spettacolare, riprendendo però la cassa e il quadrante della modellistica anni ’50, lo troverei di una banalità sconcertante. Bisogna innovare, è giusto farlo. Inoltre, tutti i cambiamenti stilistici hanno bisogno di tempo per essere “digeriti”, specie da chi ha un senso estetico davvero alto.»

Un’ultima domanda. Nel mondo del collezionismo i pezzi più importanti si riconoscono quasi avessero un nome e un cognome: se ne sa la storia, le vicissitudini, il valore. Cosa succede quando, magari in maniera del tutto casuale, in aeroporto oppure durante un momento orologiero, vedi un pezzo “conosciuto” al polso di qualcuno? 

«È una cosa che mi capitava spesso quando andavo alle aste. Ho rivisto dei miei orologi anche nelle teche di musei importanti ed è sempre una bella sensazione. Nella mia vita non ho mai avuto dei rimpianti. Ho lavorato duro per riuscire ad avere determinati pezzi, me li sono goduti e poi ho fatto altre scelte. Nulla è per sempre e non credo in quelli che dicono “non lo venderò mai.” Mi fanno un po’ tristezza, perché vogliono spesso affermare la loro potenza e quindi la non necessità di vendere. Ma non è questo il punto. Gli orologi più belli, come accade a qualsiasi creazione di altissimo livello, vanno tramandati. Sempre più persone devono avere la possibilità di poterli toccare, ammirare, indossare. Fa parte della vita, anzi, della parte bella della vita.»

INTERVISTA DI PAOLO GOBBI

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